La storia a tappe
Medioevo
In questo periodo il paese era terra compresa nel feudo di Nesso.
1497
Fu donato da Ludovico Maria Sforza a Lucrezia Crivelli.
1538
Divenne possesso di Angelo Corio e dal 1647 dalla famiglia Casnedi fino al 1787, anno in cui cessò la giurisdizione feudale.
1605
In questo anno diede i natali a padre Eusebio Zerboni, eletto guardiano di Gerusalemme e Custode di Terra Santa nel 1658.
1796-1814
Durante l’età napoleonica Veleso fece parte dei Comuni di Nesso ed Uniti.
1797
La frazione di Erno divenne famosa nell’industria della tessitura metallica italiana grazie a Pietro Zerboni, che emigrato in Germania importò, per primo in Italia, questa lavorazione.
Fino al 1928
Il Comune rimase indipendente.
1928
Insieme a Zelbio diede vita al Comune di Zelbio e Veleso.
1948
Il Comune ritornò ad essere autonomo insieme alle frazioni di Erno e Gorla.
Il Territorio
Veleso è un piccolo e caratteristico paese montano a 826 metri sopra il livello del mare, ubicato nell’entroterra del Triangolo Lariano ai piedi del monte San Primo. Del suo Comune fanno parte anche le frazioni di Erno e Gorla.
Il territorio del Comune risulta compreso tra i 525 e i 1.682 metri s.l.m. per una superficie di 5,9 chilometri quadrati.
Un luogo che offre ai numerosi villeggianti, che accorrono soprattutto nel periodo estivo, tranquillità, un clima salubre e numerosi sentieri verso i monti circostanti dai quali si può ammirare un incantevole panorama fra ricca vegetazione e il lago di Como alle pendici.
L’industria locale tipica è la lavorazione della tela metallica, tradizione ultra centenaria risalente al 1797, nata nella frazione di Erno e attiva tutt’ora.
Un prodotto dell’artigianato locale è invece il tipico cestino in legno di nocciolo.
Un tempo le risorse locali erano cereali, alberi da frutta, castagni e l’allevamento del bestiame nei pascoli ad alta quota, che ancora oggi in parte viene praticato.
Proprio grazie a questo, in alcune baite sparse tra i pascoli del territorio è possibile gustare ottimi formaggi di capra e vaccini. Nei ristoranti della zona si possono gustare diversi piatti tipici fra cui pulénta vüncia, supa de scigulin, paradell e pulenta balota.
La Prima Industria
Dal Diario Storico di GIUSEPPE BOLZANI
Papà delle signorine Luciana e Serafina
Tale industria fu importata dalla Germania ove Pietro si trovava come muratore. Fin verso il 1877 furono occupati soltanto uomini ed in seguito, progredendo anche in lavori leggeri, vennero assunte pure delle donne. Nei primi tempi si lavorava a giornata, quindi fu compilata una tariffa di cottimo, soggetta a revisione.
Tutti i lavoratori erano occupati in fabbrica e fu soltanto più tardi che venne concesso il lavoro a domicilio. I primi telai occupavano tutta la lunghezza del locale in cui erano collocati ed erano sprovvisti del rullo avvolgitore dell’ordito. L’orditura veniva eseguita ogni volta sul telaio stesso.
La prima ditta fu la ”Zerboni e Bolzani”, questi ultimi furono i finanziatori dell’azienda.
Essa aveva sede amministrativa e negozio a Milano in via Broletto; nel 1848 si trovava a Porta Comasina, Contrada Passetto N. 2022.
Dopo la liberazione del 1859, la sede della Ditta fu sempre in via Ponte Vetero, 17.
La maestranza comprendeva lavoranti di Erno, di Veleso e di Zelbio.
Verso il 1850 la Ditta fabbricò il sipario di tela metallica pel teatro della Scala a Milano, da usare in caso d’incendio.
Dal 1866 al 1913 si fabbricava pure il vello di seta per buratti.
All’esposizione avvenuta nel 1809 a Milano, nelle sale del R. Palazzo delle Scienze e delle Arti di Brera, la Ditta Zerboni e Bolzani venne premiata il 15 agosto con medaglia d’argento, appositamente coniata, per aver esposto dei tessuti di ottone e di ferro, con la seguente motivazione: ”Zerboni e Bolzani dal Lario concorsero al premio colla manifattura di tessuti d’ottone e di ferro, della quale, per quanto sembra, essi soli introdussero l’arte nel Regno; e che supplisce ora utilmente per le fabbriche di maiolica, di tabacchi ecc. a simili manifatture che si traevano dalla Germania, fu quindi attribuito il premio alla loro industria ed al perfezionamento del lavoro”. Dall’opuscolo pubblicato nel 1809 a Milano in occasione dell’esposizione.
Il figlio Pietro nato il 16 dicembre 1812 a Erno ivi † 20-5-1879 scrisse nelle sue “Memorie” interessanti notizie fra le quali:
1779 giorno 4 di Maggio Natività di mio padre Pietro Zerboni figlio di Giacomo, in Erno. Nella sua adolescenza fece il muratore. Indi l’inventore e l’autore della fabbricazione delle Tele metalliche, il primo in Italia, che per la sua invenzione e industria fu stato premiato nell’Accademia delle Belle Arti in Milano con Medaglia appositamente coniata di Argento l’anno 1809. Era ottimo meccanico e di espertissimi sentimenti.
1797
Anno in cui il padre mio
Pietro Zerboni
Edificò il macchinismo onde mettere in pubblico la Fabbricazione di Tele metalliche in Italia.
La Parrocchia di Sant’Antonio
Veleso anticamente si chiamava Velesum. Sembra che in origine fosse abitata da popolazione Celtica. In lingua celtica il nome Veleso significa “veduta da lontano”.
In Parrocchia si conservano dei timbri con l’antico nome di “Velleso” divenuto in seguito “Veleso”.
La Parrocchia fu eretta nel 1592 con territorio smembrato della pieve di Nesso. La chiesa parrocchiale del sec. XVI dedicata a S.Antonio Abate, più volte restaurata, fu consacrata il 25 Marzo 1946. Di particolare importanza è la Festa Patronale di S.Antonio Abate che viene celebrata nella domenica più vicina al 17 Gennaio, giorno proprio della Festa del Santo, festa che da antica tradizione è contrassegnata dalla benedizione del fuoco di un falò dal quale la gente legge auspici per l’anno in corso. Ma la festa centrale, alla quale la gente è più legata è quella dell’Assunta.
Nella chiesa ha un certo valore Il Battistero del XVII sec. e una parte del coro del 1600-1610, ma gran parte del coro risale all’inizio del sec. XIX. Il campanile fu eretto nel 1864 e restaurato poi nel 1961, quando fu alzata la cupola e furono aggiunte le ultime due campane: una dedicata a S. Michele Arcangelo e l’altra a S.Carlo e a S. Luigi, dei quali in chiesa c’è anche un altare dedicato. Le prime tre campane sono dedicate la prima al Patrono, S. Antonio Abate, la seconda a S. Giuseppe e la terza, che è la più grossa, alla Madonna Assunta, che veniva suonata solo poche volte, soprattutto in occasione di tempeste o di calamità naturali.
La facciata sud della chiesa è stata restaurata nel 1997-98, senza alcuna modifica strutturale ed architettonica.
Affidata alla Parrocchia di Veleso, tra le case del paese, c’è l’antica Chiesina dell’Addolorata, eretta nel sec. XV e restaurata prima nel 1954 e poi nel 1982, da sempre dedicata appunto all’Addolorata; chiesina che viene usata particolarmente durante la stagione invernale.
Di particolare importanza sono anche due cappelle. Una si trova al centro del paese, ed è dedicata alla Madonna di Caravaggio e risale al 1710, dove la comunità si ritrova a pregare il 26 Maggio, festa della Madonna di Caravaggio. Un’altra è sita nel Cimitero del paese, dedicata a S. Rocco, che risale intorno al 1721, restaurata intorno al 1990-95.
Nel territorio ci sono altre cappelle, che accompagnavano la vita dei contadini e altre più recenti, erette a seguito della guerra, come quella dei fratelli Frisoni sulla strada per la Forcoletta. Ma è da menzionare una particolare cappella: quella in località Crignolo, a ricordo della peste del 1600 (la peste del Manzoni).
Delle lesene portano le date di tanta storia. Altre notizie vengono dalla testimonianza di persone ancora viventi in loco.
Da una ricerca di Padre Armando Favero- Amministratore Parrocchiale pro tempore
La Parrocchia di Sant’Andrea
La Chiesa di Sant’Andrea ad Erno dipendeva anticamente da Veleso, da cui si separò nel 1748, diventando parrocchia indipendente. La particolare dedicazione all’apostolo Andrea ci ricorda che, questo personaggio singolare, “..era un umile pescatore di Betesda. Incontrato Gesù, Andrea lasciò il suo lavoro e, assieme a Giovanni, subito lo segui, anzi, condusse poi a conoscere il Maestro anche il fratello Simone. (Simon Pietro). Andrea, Apostolo in Asia Minore ed intermediario dei greci, fu martirizzato a Patrasso (nel 60) mediante crocefissione sopra una croce a X alla quale fu legato con funi per rendere più duraturo il supplizio. Il martire sopportò eroicamente la prova, addirittura facendo coraggio ai testimoni.”
La «croce di Sant’Andrea» venne utilizzata quale insegna di ordini cavallereschi e, durante la prima Crociata, il grido di Goffredo di Buglione: “Sant’Andrea di Patrasso!” serviva ad esortare i guerrieri alla strenua resistenza.
Sant’Andrea è patrono della Scozia, della Russia e della Grecia. E’ protettore di pescatori, pescivendoli, macellai e cordai. E’ invocato contro le ingiustizie, la sterilità femminile, la gotta ed i crampi; è inoltre invocato anche per il tempo bello, per la felicità coniugale, la benedizione dei bambini e come mediatore di matrimoni. Lo si celebra al trenta di novembre, giorno che la tradizione vuol far coincidere con una delle tre notti più lunghe dell’anno.
Anticamente, la chiesa di Sant’Andrea comprendeva un piccolo ospedale poi unito al “S’Anna” di Como.
La struttura odierna è il risultato di ampliamenti ed interventi apportati nell’arco di trent’ anni, e precisamente dal 1821 al 1851.
La chiesa si presenta ad un’unica navata, con l’abside rivolta verso il sorgere del sole. La struttura, imponente e monumentale, è di stile neoclassico e racchiude un suggestivo altare marmoreo dietro al quale troneggia una tela del 1570 donata alla parrocchia dal sacerdote Carlo Bolzani, nativo di Erno. Il dipinto ad olio raffigura, centralmente, la Madonna del Rosario, affiancata a sinistra dall’immagine di Sant’Andrea Apostolo (patrono di Erno) ed a destra dall’immagine di Sant’Antonio Abate (patrono di Veleso).
La decorazione della chiesa, ed in particolare gli affreschi delle volte, sono opera del valente pittore Luigi Tagliaferri di Pagnona (in Valsassina), e vennero eseguiti nel 1891. Sono composizioni a tinte chiare, dove l’arte matura del Tagliaferri, la sua vivacità di colorista e la bravura di attento disegnatore si accompagnano alla continuità dell’ispirazione e della tematica, sviluppata attorno all’idea dell’educazione cristiana. Gli affreschi raffigurano: l’Agnello Pasquale; i quattro Evangelisti; i profeti Elia, Davide, Isaia, Geremia; le virtù umane e la celebrazione dell’apostolo martire Andrea. La delicatezza e l’intensità cromatica, l’equilibrio delle masse corporee e la sottigliezza delle sfumature, l’accuratezza dei particolari e la naturalezza delle figure non finiscono di stupirci. Particolarmente singolari sono i Paliotti a graffito su marmo bianco, unici esemplari conosciuti, dove ritroviamo incisa la seguente dicitura: Giò M. Tagliaferri di PAGNONA, inventor di questo Metodo fecit 7 novembre 1872.
Vincenzo Schiavio
BIOGRAFIA
Vincenzo Schiavio nacque il 19 luglio 1888 nella frazione Gorla del Comune di Veleso (828 mt. s. l. m.), un paese arroccato in cima a un colle, fra Zelbio e Nesso, sul lago di Como. Sotto, il Lario: all’orizzonte, le Prealpi lombarde.
Suo padre, Carlo Schiavio, morto ancor giovane nel 1902, era un imprenditore assai avveduto e di idee socialmente avanzate: titolare di un’ azienda tessile drapperie, coperte, cascami di seta – fu sindaco di Veleso e contribuì allo sviluppo del luogo aprendovi una scuola elementare e uno spaccio per operai. La madre, Maddalena Venturi, piemontese, morì nel 1934, dopo aver provveduto a completare l’educazione del figlio, che aveva dovuto lasciare il collegio ticinese di Riva San Vitale, dove era iscritto, per tornare a casa in seguito alla prematura scomparsa del padre.
Costretto dalle circostanze a guadagnarsi da vivere ancora ragazzo, Vincenzo trovò impiego in una tintoria, poi in uno stabilimento serico di alcuni parenti; intanto, sfogava la sua passione per la montagna, compiendo lunghe escursioni, e si dilettava a dipingere con sempre maggior impegno. Come dimostrano alcuni dipinti rimastici, a soli dodici anni già maneggiava i pennelli con una certa sicurezza, pur non avendo avuto scuola di sorta.
Fu la guerra 1914-18 a consacrar/o, per intero, pittore.
Destinato, come Alpino sciatore, alla linea di difesa della frontiera sull’Adamello, si estasiò davanti alla solenne bellezza dei ghiacciai e, con l’aiuto di pastelli e qualche tubetto di colore a olio che gli inviava la madre, su pezzi di cartone, coperchi di cassette delle munizioni, fogli di taccuino, cercava di ritrarre le montagne e scene della vita di soldato.
La pittura era anche un mezzo per scacciare l’angoscia di una smania amorosa giovanile bruscamente interrotta; come raccontano, pudicamente, le pagine di un suo diario personale, la ragazza di cui era innamorato gli comunicò proprio allora di essersi fidanzata con un altro. Prima che la guerra finisse, a Edolo venne anche ferito accidentalmente, ad un braccio, da un ufficiale che armeggiava incautamente con una pistola.
Al termine del conflitto, espose in una mostra a Villa Olmo i suoi primi lavori, fra i quali campeggiavano sopra tutto i dipinti, per lo più di piccolo formato, composti durante gli anni della guerra. La vocazione a dipingere era divenuta ormai inarrestabile: e ben presto lasciò ogni altra occupazione per dedicarsi al cavalletto, firmando molte composizioni nello studiolo allestito a Como, in via Dottesio 3. Tema dominante, la montagna, sulla quale trascorreva la maggior parte del suo tempo, in lunghe passeggiate solitarie, con matita e carta nello zaino per schizzare le vedute più suggestive.
Nel 1929 si sposò con una comasca, Rachele Molinari, che lo spronò a continuare, nel nuovo studio in via Domenico Fontana, 2, la sua attività di pittore, dandogli una relativa tranquillità economica. Da allora, la storia di Vincenzo Schiavio non ha avvenimenti di rilievo, ma diventa tutt’uno con la sua pittura, predominante motivo esistenziale.
Temperamento schivo e rude, autenticamente montanaro, che malcelava una bontà fanciullesca, parco di parole come di gesti, Schiavio s’accendeva nelle conversazioni per una sola causa d’interesse, la pittura. Ormai tecnicamente si era fatto esperto, gli studi e l’osservazione delle opere di maestri della “linea lombarda”, specie di Segantini, gli avevano fornito l’indirizzo per un modo di dipingere che gli pareva felicemente idoneo soprattutto per valorizzare al massimo gli effetti di luce. Nel nome e nell’ esempio di Segantini maturò anche la sua amicizia con Carlo Fornara (Prestinone 18711968), che gli fu prodigo di consigli. Il comasco si recava spesso a trovare Fornara nell’ eremo in Val Vigezzo, e con lui intrattenne anche un colloquio epistolare, a distanza, nel quale però si parlava più di filosofia della vita semplice, agreste, a contatto con la natura, che dell’ arte di dipingere: segno che un certo modo di concepire l’arte e di trascorrere l’esistenza, con una intransigente moralità “laica” di fondo, erano strettamente connesse.
L’applicazione dei canoni divisionisti alla pittura, cauta durante la Grande Guerra, dopo un primo periodo tra il naturalismo e il Liberty (1900-1915), poi via via più sicura fino al virtuosismo (1917-1935), fu la nota dominante del sodalizio, umano ed artistico, con Baldassare Longoni (Dizzasco 1876 – Como 1956); ma rapporti di viva simpatia e affezione ebbe anche con i conterranei Achille Zambelli (Vigevano 1876 – Gravedona ]963), Eligio Torno (Como 1888 – 1960), Piero Saibene (Cirimido 1902 – Como 1969), Donato Frisia (Merate 1883 – Milano 1953) e Mario Radice. Con Manlio Rho (Como 1901 – ]957), fiduciario del Sindacato Artisti della provincia lariana negli anni trenta e organizzatore infaticabile di mostre, il rapporto fu ancor più di stima: e con Luigi Binaghi (Como 1890 – 1977), alpinista provetto oltre che pittore, di amichevole rivalità.
Con tutti costoro Schiavio ebbe certo scambi d’idee e un comune interesse per il paesaggio lombardo, forse anche occasioni di apprendere nuove cognizioni: per esempio, fu in casa di Saibene che avvicinò Arturo Tosi (Busto Arsizio 1871 – Milano 1956) e potrebbe non essere casuale la serie di “nature morte” dipinte dopo tale conoscenza.
Ma il suo percorso non tortuoso in arte appare contrassegnato dall’ originalità di pensiero e di sentimento: nè può attribuirsi ad alcuno qualche influenza sulla sua decisione di passare dal divisionismo ad un piano e nitido realismo (1936-1949) ed infine, negli anni cinquanta, ad uno stile non facilmente etichettabile nemmeno sul piano della tendenza.
Ciò non toglie, quantomeno in via d’ipotesi, che il rigoroso metodo compositivo astrattista (di Rho, Radice ecc.) abbia esercitato una sia pur minima suggestione, e che un’ altra importante amicizia commista, per lui, di rispettosa ammirazione, con Ugo Bernasconi (Buenos Aires 1874 Cantù 1960), l’abbia indotto ad usare di più la memoria nel dipingere, allontanandosi volutamente dal soggetto per evitarne la meccanica riproduzione, come appunto era solito consigliare il maestro canturino.
Negli ultimi anni si limitava a schizzare brevi appunti nei luoghi da riportare sulla tela, costruendo poi il dipinto in studio: ed era arrivato a perfezionarsi anche come fotografo, per interpretare meglio, “leggere” a distanza quei prati, quelle montagne, quelle case che dovevano diventare pittura. E non smise mai di lavorare con pazienza, con tenacia, per affinare la sua capacità di esprimersi.
Mai contento dell’ opera realizzata, in una sorta di corpo a corpo con le tele e i pennelli, aveva acquisito una non comune padronanza del mestiere, eccellendo persino nella accurata preparazione dei fondi, con un impasto a caldo di biacche, sostanze grasse per ravvivare le tonalità accese (procedimento a “mestica”) oppure, in qualche caso, con un”‘imprimitura” a secco di colla e gesso spento, adatta a sostenere tonalità fredde.
Ma i mezzi imparati da solo erano un aspetto certo necessario, e pure secondario, del suo far pittura: la questione essenziale rimaneva sempre la resa – percepibile, palpabile – dei suoi trasalimenti interiori di fronte alla natura. Coi colori, la luce, le forme: in silenzio.
Spartano di abitudini e schivo, tutto immerso nel suo ideale di trasfigurazione della realtà, fece anche dell’alpinismo una sorta di disciplina. Fu sciatore provetto e agile scalatore, aprendo con altri alcune vie nuove nei gruppi del Bernina e delle Retiche Occidentali. Consigliere della sezione comasca del CAI per molti anni, voleva che tutti intendessero la montagna come la vedeva lui, palestra per provare forza e volontà al limite della resistenza umana. E guai a chi osasse incrinarne la superba perfezione. Sul libro dei visitatori di una delle sue mete predilette, la Capanna Volta in Val dei Ratti, sono segnati spesso gli sfoghi della sua ira contro quanti non gli parevano abbastanza rispettosi dell’ambiente naturale e degli arredi del rifugio.
Solitario e scontroso com’era (qualcuno lo ricorda ancora quando partiva per i suoi vagabondaggi in motocicletta, con la cassetta dei colori a tracolla), ebbe il culto dell’ amicizia, ricambiando con grande generosità e dedizione chi gli voleva bene. Ed a questo proposito, come per la sua modestia di pittore che crede in quel che fa ma non lo valuta molto, si raccontano molti aneddoti; fra l’altro, è noto che non voleva assolutamente far acquistare i quadri dagli amici. Preferiva regalarli, magari in occasione di qualche ricorrente festività.
Soltanto nel 1950, l’anno della sua partecipazione alla XXV Biennale di Venezia (venne esposto un dipinto fra i tanti – una trentina – da lui inviati, “Pian del Tivano”, nella sala XIV dedicata agli artisti italiani), conobbe il successo oltre la cerchia provinciale. Un testimone racconta di averlo visto piangere, nello studio di Manlio Rho che l’aveva aiutato a scegliere le opere da presentare, il giorno in cui ricevette la cartolina dell’accettazione. L’anno dopo, il 1951, figurò fra gli espositori anche della VI Quadriennale d’Arte di Roma (con il dipinto “Laghi alpini”): e la sua fama andava estendendosi, quando fu colto da un male incurabile. Pochi mesi di sofferenze, poi la morte. Era il 9 settembre 1954.
Alla memoria, gli fu assegnata la “Stella del cardo” del CAI nel 1954. Due lapidi commemorative vennero poste nella Capanna Volta e nel palazzo Comunale di Veleso. Sue opere si trovano in numerose collezioni private e nella pinacoteca del Comune di Como.
Monsignor Eusebio Zerboni
Veleso si onora di aver dato i natali a Padre Eusebio Zerboni dell’ordine dei Minori francescani.
Monsignor Eusebio Zerboni nacque a Veleso nel 1605.
All’età di 15 anni entra nel convento di Santa Croce in Como.
Diviene lettore di filosofia e teologia e, successivamente, Provinciale a Milano e Definitore generale a Roma.
Nel Capitolo generale che venne celebrato a Toledo nel 1658, Monsignor Zerboni viene eletto Guardiano di Gerusalemme e Custode di Terra Santa.
Filippo di Spagna lo propose al Papa quale Arcivescovo di L’Aquila.
Purtroppo morì, all’età di 57 anni, prima che ricevesse la consacrazione episcopale.
La sua carriera ecclesiastica fu brillantissima, in virtù di eletti doti spirituali e intellettuali.
Nella Chiesa di Veleso si conserva una targa in sua memoria.
Pagina aggiornata il 31/08/2023